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"Siamo felici, di notte, quando abbandoniamo nei letti i corpi appesantiti dalla coscienza del giorno.
Stanchi della luce che filtra su questa terra, cerchiamo come prismi un sole diverso, la vera essenza della luce.
Viaggiamo clandestini, identità rubate alla delirante burocrazia del mondo, non più schiavi riconoscenti di un’ ambigua stirpe di semidei.
Come vestiti smessi sui nostri letti, ci consegniamo al buio, e sognando voliamo via, nudi di noi stessi.
Voliamo liberi per luoghi sconosciuti, per orizzonti scolpiti o mura decadenti, ritroviamo i nostri desideri, ed ogni cosa è senza prezzo.
Al di là di qualsiasi morale, integri ci confessiamo a noi stessi, mentre medici impietosi eseguono l’autopsia di Edipo e Giocasta sul cadavere della nostra psiche.
Restiamo ancora noi, anima e corpo, mente e sentimento, mentre per le strade del mondo siamo merce di scambio.
Noi ricordiamo ancora di Noi quando navighiamo al largo dell’infinita rete internet dei sogni, reduci sopravvissuti di chi si è arreso o si è svenduto alla fatica di vivere.
Nel dedalo dei sogni, un filo d’oro ci conduce alla meta, oggi o alla fine dei secoli, arriveremo di certo all’isola perduta del nostro tesoro.
Ho sognato “Eldorado” il mio fido cavallo. In una unità di sensazioni e di intenti, Eldorado mi ha portato al galoppo per le strade della mia città, dove volavamo, quasi, colmi di libertà.
Ho visto me stessa, sporca ebrea, capelli biondi, lunghi, vitino di vespa, fisico armonioso ma non prorompente, scendere lenta nel rifugio pieno di noi, sporchi ebrei.
In quel rifugio ho riconosciuto mio figlio, sedersi a tavola con un’altra famiglia, cosciente di rischiare ogni minuto la vita e viverla come se ogni minuto fosse l’ultimo.
Eldorado, vieni, risaliamo, andiamo via come il vento da questo dolore, portami nel paese dell’oro, dove brilla il sole della terra.
Eldorado mi ha portato, mi ha portato per un deserto che brillava come l’oro.
Allora ho pensato alla mia vita di giovane indio e per raggiungerla ho dovuto districare i rami di una melmosa palude.
L’indio si stava accomiatando dalla sua donna, che chinava mestamente la testa al suo volere mentre il cuore le piangeva – ho sentito l’addio del suo cuore che piangeva d’amore – al suo volere che la lasciava per andarsi a riunire ad un’altra donna, ad un altro destino.
Andiamo, Eldorado, non ci scorderemo mai di loro: per quanti legami abbiamo dovuto lasciare, se erano fatti d’amore, li porteremo sempre dentro di noi".
V. Faillaci, tratto dallo spettacolo e cd "Forma Muta"
La Palma e il Minotauro - Nota Critica
Il nucleo de “La palma e il minotauro” si sviluppa nella complessità dei suoi rapporti simbolici con la vita che si confronta e conforta con l’Altro, con se stessa e con la Natura. La sensibilità e la finezza lirica dei componimenti allineati dei quali è costituita serialmente l’opera, sono di coralità illimitata. E questo canto onnivoco e totale svetta in acuti che non la rompono, ma la sublimano.
È raro che le molte attitudini di una persona impegnata in studi e ricerche, si realizzino e si compongano in un’opera di poesia; così accesa, così animata come non potrebbe essere senza un’adesione piena, un amore assoluto, ideale e sensuale, al proprio nucleo: la vita.
Nel viaggio poetico proposto da Valeria Faillaci s’individua una zona conativa di anabasi: il tentare mutazioni, il trasformare la solitudine in vittoria o l’indagine sulla condizione dell’Uomo nel suo relazionarsi all’Universo. Nella caducità e nella fragilità la Faillaci, racchiude sia l’uomo che la donna che nel dolore hanno la vis del riscatto. Archetipi dell’Anima in cui il Femminile deve farsi, come vedeva Pavel Evdokimov, “salvezza del mondo”, nel riportare alla luce quelle profonde verità e con il far prendere coscienza al Maschile del suo abuso di potere.
Il Minotauro allora è archetipo del perturbante, ma anche dell’Animus che deve trovare la sua esatta collocazione energetica fra il mostro e l’umano. La palma, simbolo della sapienza raggiunta e dell’eleganza; è anche simbolo cristianamente del martirio e segreto collegamento fra Occidente e Oriente, perché essa geograficamente prolifica nelle terre orientali. È anche segno del sacrificio; la palma produce una infiorescenza quando appare ormai morta e dalla sue ferite procede la sua crescita.
Il concedo di quest’opera non a caso è: “A Cristo ogni sera/ levo le spine”. La risposta metaforica alla potenza del Femminile che, attraverso la comprensione del Sacrificio, si sacrifica e lenisce le ferite del mondo.
Niccolò Carosi